L’Afro-Semitic Experience di John Zorn nelle mani del gruppo guidato da Jon Madof che unisce energia e virtuosismo, rabbini e Nigeria
Domenica 15 febbraio, mattina grigia e umida come solo Milano sa a volte essere, insospettabili signore ingioiellate siedono con me nel palchetto di un teatro Manzoni stracolmo: la metamorfosi però istantaneamente lo trasforma in un localino dimesso di Downtown New York dove si respira il calore statico, terroso, di un tardo pomeriggio nigeriano.
Sul palco, infatti, il supergruppo Zion80, di provenienza appunto newyorkese: due album all’attivo, è la creatura più numerosa di Jon Madof (1974), chitarrista ebreo ortodosso radicato nella proprio cultura musicale quanto aperto a quel jazz-rock sperimentale che si rifà al suo mentore John Zorn, una delle personalità musicali più influenti del ventesimo secolo. Madof ne raccoglie qui la cosiddetta Afro-Semitic Experience, unione delle tradizioni musicali ebraiche di Shlomo Carlebach con i suoni afrobeat del nigeriano Fela Kuti – del cui progetto Egypt ’80 riprende anche il nome.
Nessuno occupa il centro del palco, i musicisti a semicerchio si guardano in faccia: sulla sinistra i cinque fiati, al centro il cuore pulsante di batteria e percussioni, sulla destra basso e chitarre. Spetta al loro artefice Jon Madof, kippah sul capo e Gibson al collo, dirigere la band, le sezioni nelle loro alternanze di pieni e vuoti, chiamare le riprese dei temi di ogni composizione: e, come tutti, divinamente suonare senza mai offuscare i momenti altrui né il sound collettivo.
Soprattutto, Madof maneggia con padronanza gli stilemi su cui John Zorn ha imperniato tutto il proprio secondo Book of Angels e il lavoro di Masada: un ‘canzoniere’ di circa 200 brani, di cui Adramelech (Tzadik, 2014), fulcro di questo concerto, non è che il Volume 22.
Il basso di Shanir Blumenkranz, al lavoro con Madof dal 2003, già sul palco con Zorn stesso e cimentatosi con il Book of Angels nel Volume 20 Abraxas, rappresenta forse il vero carburante di quel motore che è il groove elettrico di Zion80: raramente Madof lo fa tacere, e si affida ai suoi riffs corposi quanto melodici per costruirvi sopra uno show dove tensione ed espressività mai abbandonano il palco.
Neanche in un solo momento dell’ora e mezza di concerto, la carica delle poliritmie africane risulta indigeribile, né la riconoscibilità delle scale ebraiche stucchevole: l’interplay di un ensemble come Zion80 ha la sua forza certo nel virtuosismo dei componenti, ma ancor di più nella loro capacità di adattarsi e porsi al servizio di un ideale che parte da quel gigante di Zorn e si esplica nelle divertite direttive di Madof sulla scena.
Al resto pensano i soli – free ma misurati, contestualizzati e mai obbligati – di musicisti come Jessica Lurie (sax baritono e flauto traverso) o Marson Slobol (percussioni), per citare solo i più apprezzati dal pubblico oltre appunto a Shanir Blumenkranz.
Ma l’afrobeat di Fela Kuti non è solo nelle ritmiche e nella presenza di due sax baritoni, la tradizione klezmer non è solo nelle melodie e nei fraseggi di una sezioni di fiati davvero espressiva: entrambe le culture vivono del senso di comunità e di comunione, percepibile sul palco – un senso rafforzato forse anche dalle dolorose diaspore affrontate nei secoli.
Madof, con Zion80, riesce a portare le proprie memorie ebraiche fuori dal tempo per poi catapultarle nel qui-e-ora delle sonorità di un altro gigante come Fela Kuti, e la dimensione live riesce a mostrarne la forza e l’attualità. Da ballare ancor più che contemplare, un po’ costretti sulle sedie di un teatro, auguriamo a Milano – oggi meno grigia – di poter godere di questa estatica energia in piazza.
Al teatro Manzoni Zion80 – Shlomo Carlebach meets Fela Kuti (Jon Madof – direzione e chitarra)