Zorro: troppo “super”?

In Teatro

Latella porta al Piccolo uno Zorro pieno di suggestioni e di colori, dove intrattenimento e pensiero non si amalgamano e forse non vogliono farlo. Espedienti non nuovi ma impattanti: il pubblico apprezza, a patto di accettare le regole del gioco.

“I supereroi si sono presi la nostra maschera” Ci si perdoni lo spoiler – e il linguaggio più cinematografico che teatrale non è casuale – ma non si può che partire da vicino al finale per cercare di leggere lo Zorro di Antonio Latella, al Piccolo Teatro fino al 18 febbraio. La maschera è quella dello Zanni, che serve per servire, e diventa quella di Zorro, emblema di chi nasconde (con vergogna?) la propria ricchezza per farsi paladino di quegli stessi poveri a cui, tuttavia, gli eroi guardano con la superiorità dei loro super-lativi.  Ci sono indubbiamente tante idee, nel lavoro che Latella firma con Federico Bellini. La più solida e insistita è sicuramente la riflessione sulla povertà e sull’ipocrisia di un mondo – soprattutto quello culturale e narrativo – che spesso vi si accosta con condiscendenza, facendo largo uso di accenti patetici. Che Latella, al contrario, sceglie di mettere in ridicolo. Lo fa vestendo di colori sgargianti e paillettes quattro simboli, anche del mondo di Zorro: il povero, il poliziotto, il muto e il cavallo, e scegliendo un immaginario pop ipertfrofico per inserirci dentro, a forza, i dati e le voci della povertà.

Chiedendo, sottilmente, allo spettatore, da che parte sta e in quale di quei ruoli vuole leggere la sua vita, nella quadriglia con cui sul palco i quattro interpreti se li scambiano, aggiungendo ciascuno una lente al ritratto della povertà orgogliosa e rabbiosa, illusa e sincera. Lo fa, però, senza dichiararlo, cercando invece la risata grassa, il gioco del nonsense e pescando a piene mani dagli espedienti del surreale e del grottesco che alcuni colleghi sperimentano da una quindicina d’anni. L’abbondanza delle intenzioni, del resto, si riflette anche in quella delle forme e delle citazioni.
Un – lungo, lisergico, coloratissimo – ballo con le coreografie curate da Alessio Maria Romano  in cerca della provocazione, che però forse non è la più acuminata tra le intuizioni per cui Latella ha abituato a farsi apprezzare. C’è tutto: dalle mutande calate ai giochi di parole, dai balletti in bilico tra anni Ottanta e Novanta ai cactus parlanti e semoventi, e una quasi ossessiva chiamata in causa del pubblico nella sua dimensione più uniforme, scanzonata e ridanciana, come certi intrattenimenti da villaggio turistico.

L’immaginario di riferimento, del resto, pare oscillare tra il cartoon e la pubblicità, almeno fino a che non irrompe, con prepotenza, la spietatezza dei dati e la rabbia dei giudizi, che si mischiano e si confondono in una scena quasi vuota dove “a volte tutto è tanto vero che siamo costretti a non crederci, a volte tutto è così falso che ci crediamo come mai nulla”. Ma c’è di tutto, a beneficio di chi lo voglia leggere – molto democraticamente: chi lo ha detto che povero significhi incolto? – nel gioco della ricerca dei riferimenti. Un lavoro ipercitazionista, dove se a farla da padrone è, ovviamente, il teatro dell’assurdo e Zorro trasformato nel Beckettiano Godot che non arriva mai, ma si intravvedono il Pasolini dei poliziotti figli di proletari Brecht e un certo Marinettismo di fondo, Giova anche del lavoro di quattro convincenti attori: Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, tra cui spicca il giovane Isacco Venturini, anche chitarrista elettrico dal vivo e cantante, tra il crooner e il dolente, anche se l’impressione è che l’enorme messe di spunti e significati che il regista ha letto nel significante Z si traduca in un’altrettanto ampia varietà di suggestioni a cui manca – volutamente? – un ordine e una centratura così come il regista la restituisce invece nel programma di sala. Valga un esempio su tutti: la quadriglia come danza utilizzata per raccogliere denaro per i poveri.

Impressione sostenuta da una seconda parte in cui il tono muta drasticamente, per puntare il dito sulle ipocrisie di chi povero non è, sulle ossessioni securitarie a cui il mondo sta virando e sulla contiguità tra i destini possibili, moltiplicando il puntatore singolo che identifica il teatro a chiusura del primo atto, in una molteplicità di individualità su cui si chiude il secondo. Pur non senza rinunciare a qualche accento retorico,  si prova anche a leggere cinicamente il ruolo del teatro verso i poveri “meno male che ci siete voi, altrimenti non sapremmo di cosa parlare”. Difficile trovare una sintesi, in tutta questa abbondanza, in bilico tra un Hellzapoppin e tirate che sarebbero teatro civile se l’attore (e con lui gli autori?) non confessassero sarcasticamente tra le prime battute il proprio odio per quel che è civile. che si accostano senza continuità e a sfregio di qualsiasi tentativo di trovarla. E allora, forse, l’unico modo di fruirla è farlo come da bambini ci si innamorava dei supereroi: rifiutarsi di capirla e conservare quello che il loro ricordo ci affida.

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